Isola di Mozia
L’isola di Mozia è un’antica colonia fenicia sull’isola di San Pantaleo, che sorge a pochi passi dalle coste della Sicilia, nel cuore della splendida laguna delle saline di Marsala. Questo sito archeologico, di rilevanza mondiale, fa parte della Riserva Naturale Orientata dello Stagnone, ed è una delle attrazioni più suggestive della Sicilia.
Grazie alla sua posizione strategica, l’isola è sempre stata un centro logistico per lo scambio delle merci. I primi ad approdare sull’isola furono i Fenici, nell’VIII secolo a.C., che la trasformarono in una fiorente cittadina. Per difendersi dagli attacchi dei nemici vennero edificate delle alte mura che resero l’isola inespugnabile per parecchio tempo, resistendo agli attacchi dei Greci prima e dei Cartaginesi dopo. Nel 397 a.C. la città di Mozia venne però invasa e distrutta dalle truppe siracusane guidate dal tiranno Dionisio il Vecchio. Gli abitanti fuggirono e si ripararono sulla terra ferma e l’isola rimase abbandonata per parecchi secoli. Nell’XI secolo d.C., durante la dominazione Normanna, Mozia fu donata all’abbazia di Santa Maria della Grotta di Marsala e divenne sede dei monaci basiliani di Palermo. Furono proprio i monaci a dare il nome di San Pantaleo all’isola, dedicandola al proprio santo fondatore dell’ordine. Mozia conobbe un periodo di splendore quando, nel 1902, il nobile inglese Joseph Whitaker, che in Sicilia aveva avviato una fiorente esportazione del vino di Marsala, decise di costruire qui la sua abitazione e riportò alla luce i resti dell’antica città fenicia, insieme ad una vasta serie di reperti oggi esposti nel museo Withaker.
La cinta muraria, lunga circa 2,5 km, racchiudeva l’intera l'isola. Era fondata sul banco in calcare tenero che si alzava appena sulla brevissima spiaggia. I resti oggi visibili, nelle parti di sud-est, est e nord, sono il risultato di diverse fasi di costruzione e restauro, sempre sul medesimo tracciato, e si presentano con muratura in scheggioni di roccia o a blocchi squadrati di dimensioni varie o con altre tecniche più semplici.
L'ingresso alla città era costituito dalla Porta Nord e si articolava attraverso tre porte successive, a circa 22 m l'una dall'altra, ognuna delle quali era costituita da due aperture affiancate separate da un muro centrale. Le strutture meglio conservate sono relative alla porta più esterna, cui forse era pertinente, come fregio di coronamento, il gruppo scultoreo di due felini che azzannano un toro, conservato nel museo Withaker.
Dalla Porta Nord partiva una strada artificiale che collegava l'isola con il promontorio di Birgi sulla terraferma. La strada, lunga circa 1,7 km e larga circa 7 m e affiancata da muretti alti cm 45, è conservata solo a tratti e attualmente è completamente sommersa per l'innalzamento del livello del mare. La strada fu realizzata intorno alla metà del VI secolo a.C. per collegare la città con la nuova necropoli costruita in quegli stessi anni sul promontorio di Birgi.
All'interno delle mura, a poca distanza dalla Porta Nord sorge l'area sacra del Santuario di Cappiddazzu, termine che in dialetto siciliano indica un capello a falda larga. I resti ritrovati in questo sito risalgono a quattro distinte fasi: alla prima fase, che risale agli inizi del VII secolo a.C., sono datate una serie di fosse scavate nella roccia e profonde circa 30 cm, disposte all'interno di una fossa più grande; alla seconda fase, attribuita alla seconda metà del VII secolo a.C., risale un primo edificio con muretti in pietrame grezzo e un pozzetto costruito nella medesima tecnica; alla terza fase, risalente al V secolo a.C., appartengono i frammenti architettonici di capitelli d'anta a gola egizia pertinenti ad un edificio in pietra che dovette essere distrutto nell'assedio del 397 a.C. e i cui materiali furono poi riutilizzati nelle fondazioni dell'edificio ricostruito; alla quarta fase, che corrisponde alla ricostruzione del IV secolo a.C., appartiene un grande edificio a pianta tripartita a nord, inserito in un ampio recinto. Si conservano inoltre i resti di una grande cisterna ovale e tracce di intonaci e pavimenti di diverse epoche.
Sulla costa settentrionale ed orientale dell'isola sono stati rinvenuti i resti di alcuni impianti destinati alla produzione e alla lavorazione.
A Nord del "santuario di Cappidazzu" si sviluppa un complesso destinato alla produzione di ceramica, parzialmente scavato. Il complesso sembra essere stato impiantato nel VI secolo a.C. e aver subito una ristrutturazione nel V secolo a.C., per essere poi distrutto nel corso dell'assedio siracusano del 397 a.C.. Era costituito da uno spazio scoperto con un piccolo forno all'angolo sud-ovest, abbandonato in una seconda fase e ricoperto da una pavimentazione in acciottolato. Nel pavimento era inserito un grande recipiente e vi si apriva inoltre un pozzo quadrangolare scavato nella roccia, con tacche nelle pareti per la discesa, a cui si collegano condutture fittili. A sud-est si trovava un forno più grande, con pianta a forma polilobata, presso il quale è stato rinvenuto capovolto un grande bacino in pietra con becco di scolo, probabilmente utilizzato per la lavorazione dell'argilla. Nella limitrofa area è stato rinvenuto un pozzo circolare scavato nella roccia, successivamente abbandonato e ricoperto da un pavimento in battuto di argilla, che doveva raccogliere per mezzo di condutture fittili l'acqua piovana dalle mura cittadine e doveva essere stato utilizzato nella prima fase del complesso produttivo.
Dopo la successiva distruzione della città quest’area fu ricoperta da cumuli di detriti, che comprendevano elementi architettonici e pietre ammassate con rifiuti di vario genere. Qui è stata rinvenuta nel 1979 la statua marmorea nota come il Giovane di Mozia, attualmente conservata nel museo.
Una seconda area produttiva, per la tintura e forse per la concia delle pelli, fu individuata nei pressi della "necropoli arcaica". Questa zona restò in funzione dagli inizi del VII secolo a.C. fino alla distruzione di Mozia agli inizi del IV secolo a.C. Si tratta di una superficie quasi quadrata (m 23,5 x 21,5), delimitata da muri costituiti da piccole pietre, e sul lato est in parte da mattoni crudi. All'interno di questo spazio furono scavate nella roccia piuttosto tenera, circa venti fosse, in maggioranza ellittiche e profonde intorno ai 2 m,. Completavano l'insieme due pozzi per l'acqua. Ammucchiati in notevole quantità in vari punti dell'area si sono rinvenuti resti di molluschi marini, specialmente murices, che fornivano la materia prima per la tintura di color porpora, una specialità fenicia: si è dunque supposto che l'impianto fosse destinato alla concia e alla colorazione di pelli ed anche di tessuti.
La Necropoli della fase arcaica si trova sulla costa settentrionale dell'isola. Si tratta di una vasta zona rocciosa spianata, attraversata dalla cinta muraria, che lascia alcune tombe all'interno della città. Le tombe sono prevalentemente ad incinerazione e sono costituite da piccole fosse scavate nella roccia o nella terra che contengono il cinerario e ai lati gli oggetti del corredo funerario.
Il Tofet di Mozia, ossia il santuario, si trova sulla costa settentrionale, nello spazio tra il mare e le mura. Restò in funzione probabilmente sin dalle origini dell'insediamento, intorno al VII secolo a.C., fino a dopo l'assedio siracusano, nel III secolo a.C. In questi secoli si succedettero tre principali fasi. Nella fase più antica il santuario occupava un'area ristretta al centro. In una seconda fase, metà del VI secolo a.C., il santuario venne ristrutturato, e l'area sacra fu estesa verso est, per le deposizioni, con opere di terrazzamento, e verso ovest con la costruzione di un piccolo tempio rettangolare. Dopo la distruzione dovuta alle vicende della breve conquista siracusana il santuario fu risistemato: il rialzamento dei muri di terrazzamento inglobò le stele delle fasi precedenti e frammenti architettonici. Ad est e ad ovest dell'area sacra furono inoltre realizzati camminamenti in acciottolato. Sul banco di roccia naturale si conservano sette strati sovrapposti di urne: nel settimo strato, il più profondo, le urne venivano deposte sulla roccia, nei due strati successivi le deposizioni si infittirono e iniziarono ad essere spesso racchiuse da lastre infisse nel terreno. Le deposizioni degli strati IV e III sono numerose, con stele e cippi di grandi dimensioni, con iscrizioni e raffigurazioni simboliche o antropomorfe, che furono riutilizzate in successive opere di terrazzamento. Negli strati I e II sono presenti solo le urne.
La parte centrale dell'isola era occupata dall’abitato, con un reticolo viario ortogonale, di cui sono stati portati in luce solo alcuni tratti. Nel centro è visibile un tratto di una strada orientata in senso nord-ovest/sud-est, delimitata dalla fronte di diversi edifici. Una pietra collocata verticalmente in corrispondenza di uno spigolo, che doveva fungere da paracarro, rivela la presenza di un incrocio con una via ortogonale, solo parzialmente visibile. Nella pavimentazione in battuto della strada si aprono quattro pozzetti circolari, scavati nella roccia e rivestiti di pietre a secco, tre dei quali sono allineati che avevano la funzione di drenaggio delle acque.
Lungo la costa sud-orientale dell'isola si trova un complesso edilizio scavato solo parzialmente, denominato Casa dei mosaici, costruito su due livelli sul pendio che degrada verso il mare. Il pavimento del peristilio era decorato con mosaico a ciottoli neri, bianchi e grigi di cui si conserva un breve tratto nell'angolo nord-est, con pannelli, raffiguranti animali, un leone che assale un toro, un grifone che attacca un cervide, e un leone e un cervide su due pannelli, separati da un motivo a rombi e delimitati da un bordo tripartito.
LaCasermetta deve il suo nome ad un edificio addossato all'esterno di una grande torre delle mura, sulla costa meridionale, tra la Casa dei mosaici e la Porta Sud. L'edificio è suddiviso in due parti poste ai lati di un corridoio scoperto, in fondo al quale una scala conduce al piano superiore sopra le mura difensive, dove si trovano i resti del pavimento di un ambiente scoperto. I muri sono costruiti con tecnica a telaio: grossi blocchi d'arenaria di misure uniformi e posti ad intervalli regolari costituiscono l'ossatura del muro, mentre altri blocchi simili sono utilizzati per gli stipiti delle porte, che conservano traccia degli incassi per i telai lignei. I tratti di muratura tra i blocchi sono costituiti da piccole pietre con legante. La destinazione d'uso di quest'edificio è ignota e l'assenza di dati stratigrafici ne rende problematica la datazione: la costruzione è comunque posteriore a quella della grande torre della cinta muraria, mentre la sua distruzione fu dovuta ad un incendio, forse in relazione con l'assedio del 397 a.C..
Il kothon è stato identificato come una piscina sacra connessa con il tempio adiacente. La vasca, che era alimentata da una sorgente di acqua dolce, attraverso una serie di sette blocchi di calcarenite inseriti nello strato marnoso. La piscina era collegata da un canale costruito con il pozzo sacro posto al centro del Tempio del kothon. In corrispondenza del kothon, nel corpo delle mura urbiche fu costruito un bacino di carenaggio. Il fondo di questa installazione era pavimentato con blocchi di calcarenite e al centro vi era ricavato un solco longitudinale, a sezione semicircolare. In questa parte del canale doveva funzionare come cantiere per la riparazione delle navi, la cui chiglia scivolava sul solco ricavato sul fondo appoggiandosi alle strutture triangolari e ad elementi in legno inseriti nelle scanalature delle banchine. L'ingresso del canale venne successivamente chiuso alle due estremità da muri costruiti sopra lo strato di fango depositato sul fondo.
L’isola di Mozia si gira a piedi in circa due ore attraverso sentieri guidati che segnalano i punti di interesse.